Lenny Breau… Chi era costui? Sarà capitato a molti più o meno esperti di chitarra jazz di trovarsi nell’imbarazzo di Don Abbondio una volta inciampati nel nome di Lenny Breau (ero tra i molti anche io, lo ammetto, grazie Manuel di avermi suggerito di scrivere questo post!).
In un’epoca dove ogni briciola di talento viene esaltata e raccontata senza risparmiare superlativi, come è possibile che un vero gigante dello strumento sia pressoché ignorato?
Breau è stato veramente un grandissimo interprete della chitarra, forse troppo avanti, come si dice, per essere apprezzato in vita, forse troppo musicista puro per accettare quel po’ di compromesso indispensabile a far presa sul grande pubblico, forse troppo aggrovigliato nelle sue debolezze di uomo per lasciare volare l’artista che era.
Uno schiaffo e via
Leonard “Lenny” Harold Breau nasce a Auburn, nel Maine, il 5 agosto 1941. Papà Harold e mamma Betty sono musicisti professionisti, vivono suonando country, e il piccolo Lenny li segue in tournée.
A tre anni canta armonizzando le voci con quelle dei suoi genitori in una radio locale, e di tanto in tanto sale anche sul palco durante i concerti. A nove anni ha la sua prima chitarra, sei anni dopo è il solista di un gruppo, mentre suona regolarmente con i suoi. Il suo mito è Chet Atkins, fuoriclasse del fingerpicking: lo ha sentito per caso alla radio quando aveva 11 anni, e ne è rimasto folgorato.
Il country gli sta stretto, e quando si trova sul palco con la chitarra in mano si lascia andare a divagazioni jazz che non trovano l’approvazione del pubblico, né quella di suo padre. La rottura arriva intorno al 1959. Si racconta che dopo un’esibizione in cui aveva introdotto (troppe?) improvvisazioni jazz, papà Harold lo prese a schiaffi. E Lenny lasciò il gruppo. Pare di sentirlo il rumore sordo di quella mano sulla pelle, e quello ancora più forte che deve aver fatto nell’anima del giovane chitarrista. Uno strappo irreparabile, l’inizio della carriera da solista.
Vette artistiche, abissi personali
Libero di dedicarsi alla sua musica, Breau segue la sua ispirazione, tra vette artistiche e abissi personali. Chet Atkins, che per lui divenne quasi un secondo padre, in un vecchio articolo su Frets Magazine (Luglio, 1986), scrive: «Ha preso le mie idee frammentarie e le ha portate oltre, verso aree musicali che neanche mi sognavo. In ogni suo brano che ho ascoltato, mi sono trovato a pensare: “questo è quello che intendevo! Questa è la direzione che volevo seguire, prima di impantanarmi nella produzione dei dischi”».
Era metà degli anni sessanta, Lenny stava registrando con la RCA, sotto la supervisione di Chet Atkins, l’inizio di un sodalizio artistico e umano che è durato tutto il resto della breve vita di Breau. Il figlio di Breau si chiama Lenny Chet (qui il suo sito), e non è un caso. La vicinanza quasi paterna di Atkins, però, non tiene Lenny lontano dalle droghe e dall’alcol. Nel corso degli anni prova di tutto. Prima l’LSD, dice che gli apre la mente, un classico degli anni Sessanta, ma in realtà lo rende solo molto fragile. Poi passa all’eroina, al metadone quando non trova droghe… «Ho provato a tenerlo in riga, ma era una battaglia che non potevo vincere», si è rammaricato Atkins.
Bravo, ma non piace
Il suo talento è riconosciuto da tutti gli addetti ai lavori, ma Breau non sfonda. I suoi primi dischi per la RCA (Guitar Sounds of Lenny Breau del 1968 e The Velvet Touch of Lenny Breau, 1969) non vendono quanto sperato. Il pubblico era più attratto da altra musica (Miles Davies e John McLaughlin erano lanciatissimi con la fusion), e Lenny non ha voluto seguire i programmi promozionali della casa discografica. «Semplicemente non era ambizioso dal punto di vista commerciale», dice chi lo conosceva bene. La droga fa il resto.
Judi Singh, cantante, compagna di Lenny, preoccupata dalla dipendenza lo lascia portandosi via la loro figlia Emily. Nello stesso periodo muore per overdose un amico. Breau reagisce nel peggiore dei modi alla depressione: aumentando le dosi di droghe per stordirsi. Entra in rehab, ma viene cacciato per possesso e spaccio di eroina. Salvo un momento di relativa tranquillità, sempre grazie a Chet Atkins che lo tiene accanto a sé e gli fa registrare due album (The legendary Lenny Breau… now! qui l’album, e Standard Brands in duo con Atkins stesso, qui album), la vita di Lenny prosegue tra sorprendenti virtuosismi alla chitarra e incurabili dipendenze da droghe, riconoscimenti dei colleghi e indifferenza del pubblico.
Un milione di accordi per tre persone
Si dice che se il rock è tre accordi suonati per milioni di persone, il jazz è un milioni di accordi suonati per tre persone. Una battuta (neanche poi tanto…) che è la sintesi degli ultimi anni di Lenny Breau, passati a suonare nei locali di Los Angeles, davanti a un pubblico che comprendeva spesso anche Pat Metheny e Larry Coryell, ma quasi sempre pochi altri.
Il 12 agosto 1984, Lenny Breau viene ritrovato morto nella piscina del condominio in cui viveva. Non è affogato, è stato strangolato. La principale indiziata è la seconda moglie, con la quale litigava spesso, ma non viene incriminata e la morte resta un mistero tutt’ora, e il suo corpo è sepolto in una tomba senza nome a Los Angeles.
Un piano a sette corde
Lenny Breau suonava, con un tocco morbido delle dita e un thumb pick, una chitarra a sette corde, con un La acuto oltre al Mi cantino. Erano così sia la sua chitarra classica con corde di nylon sia l’elettrica (nelle foto), strumenti per lui fondamentali per aumentare le possibilità armoniche, giocare con gli accordi.
«Ho raggiunto un punto che trascende lo strumento. Molte delle cose che suono sulla chitarra a sette corde erano considerate tecnicamente impossibili, e ci ho messo oltre vent’anni di studio per riuscirci. Suono la chitarra come se fosse un pianoforte, ci sono sempre due cose che succedono contemporaneamente. Penso alla melodia, e anche all’accompagnamento, che suono sulle corde più basse», ha detto Breau.
Per chi fosse interessato, qui si trova un approfondimento pratico delle sue tecniche più famose, come l’uso degli armonici sviluppata partendo da Chet Atkins (qui li spiega lui stesso) e il cambio di posizione della mano sinistra senza interrompere il suono delle note prese con le dita.
Due esempi per capire l’unicità e la versatilità con cui era capace di passare da uno stile all’altro
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